Un futuro di nanodispositivi

Dalla rivista:
Elettronica Oggi

 
Pubblicato il 1 agosto 2012

Dai laboratori impegnati nella ricerca sulle strutture nanometriche si susseguono gli annunci, a significare che le aspettative sono molte e, a quanto pare, suffragate da continui risultati, anche se per molti dispositivi il tempo delle applicazioni pratiche non è certo immediato. Tra i materiali su cui si poggiano notevoli aspettative dei ricercatori vi sono i nanotubi di carbonio (Fig. 1) e il grafene (Fig. 2), utilizzando i quali si pensa di riuscire a ottenere dispositivi dalle caratteristiche sinora non ottenibili con le tecnologie odierne.

Fig. 1 – Foto al microscopio di una serie di nanotubi di carbonio

Fig. 2 – Fogli di grafene sovrapposti (Manchester University) su substrato di silicio

Transistor a nanotubi
Le caratteristiche fisiche ed elettriche dei nanotubi di carbonio sono state approfondite a sufficienza, al punto da ipotizzarne varie applicazioni in ambito elettronico; ne sono un chiaro esempio le varie sperimentazioni che riguardano i cosiddetti “transistor a nanotubi”, detti anche CNT, da Carbon Nanotube Transistor. Le prime ricerche sui CNT risalgono a sei anni fa, e da allora il numero di centri di ricerca interessati è cresciuto notevolmente.

Tra i lavori in questo ambito si segnalano quelli di IBM, che in un recente comunicato (i dettagli sono stati pubblicati su Nano Letters nel marzo scorso) ha rivelato di aver realizzato un transistor a nanotubo che misura solo 9 nanometri, ovvero molto più piccolo dei più spinti transistor al silicio oggi ottenibili, per i quali il limite fisico previsto è di 11 nanometri. Il nuovo CNT (Fig. 3) opera con una tensione di lavoro di soli 0,5 Volt, ed è in grado di sostenere una corrente quadrupla rispetto a quella di un equivalente in silicio, consumando minor potenza. Ciò significa poter disporre di un segnale elettrico di ottima qualità con una maggior efficienza, ciò che permette di ampliare la gamma delle applicazioni possibili. IBM ha altresì dichiarato in questo annuncio di voler investire in maniera significativa nello sviluppo dei CNT in quanto ritiene che le migliori prestazioni ottenibili consentano di ipotizzare nel medio termine la possibilità di realizzare processori basati su CNT, con significativi vantaggi rispetto al silicio.

Fig. 3 – IBM ha realizzato un transistor a nanotubo che misura solo 9 nanometri, ovvero molto più piccolo dei più spinti transistor al silicio oggi ottenibili

Anche un gruppo di ricerca svizzero (ETH di Zurigo) ha realizzato un transistor di tipo CNT ma, a differenza di IBM, con nanotubo sospeso tra due contatti metallici e gate sul substrato (Fig. 4). Ciò permette tra l’altro di eliminare gli effetti di isteresi della tensione di gate.
Il maggior problema relativo ai transistor a nanotubi riguarda però la loro produzione in volumi idonei, poiché sino ad ora non sono state messe a punto tecniche adeguate che garantiscano sufficienti economie di scala. D’altronde, le maggiori società produttrici di dispositivi a semiconduttore hanno investito cifre enormi per lo sviluppo e l’ottimizzazione degli impianti per la produzione dei chip al silicio nei due decenni scorsi, ed è ovvio che dimostrino una certa resistenza a investire in una tecnologia che comporta un drastico cambiamento degli apparati produttivi.

Fig. 4 – Foto al microscopio elettronico di un transistor CNT con nanotubo sospeso tra due contatti di palladio

Sensori basati su CNT
Un gruppo di ricerca presso l’università di Delft ha pensato di sfruttare i CNT – opportunamente attivati – come biosensori in grado di rilevare tracce anche infinitesimali di sostanze organiche, teoricamente anche una sola molecola (Fig. 5). Anche il centro di ricerche francese CEA ha investigato le proprietà dei CNT come sensori, ottenuti collocando i nanotubi su APTS (3-amminopropiltrietossisilano) depositato su silicio, con contatti in titanio/oro (Fig. 6), ottenendo sensibilità molto elevate.

Fig. 5 – Immagine 3D ottenuta con microscopio a scansione AFM di un elemento CNT utilizzato come sensore biomolecolare (TU Delft)

Fig. 6 – Il centro di ricerche francese CEA ha investigato le proprietà dei CNT come sensori, ottenuti depositando i nanotubi su APTS e silicio, ottenendo sensibilità molto elevate

Mentre gli approcci sopra citati hanno optato per l’impiego di un elettrodo di gate sottostante all’ossido di silicio, vi sono laboratori che hanno preferito verificare le prestazioni dei CNT con gate superiore o addirittura con strutture di tipo dual-gate (Fig. 7) come ad esempio l’AIST (National Institute of Advanced Industrial Science and Technology), in modo da controllare meglio le caratteristiche di conduzione. Non solo, ma al fine di evitare le instabilità nonché gli effetti di isteresi legati alla presenza di contaminanti dovuti ai residui delle varie fasi di processo, si è preferito “passivare” il nanotubo con una strato di nitruro di silicio.

Fig. 7 – CNT con strutture di tipo dual-gate realizzato dai laboratori AIST

Un’altra applicazione dei transistor a nanotubi riguarda la realizzazione di circuiti che risultino il più possibile resistenti, elastici e flessibili, tali da poster essere ad esempio incorporati negli indumenti, utilizzati negli impianti in campo medico, in celle solari che possano essere usate per ricoprire oggetti di forma complessa oppure essere impiegati come sensori in applicazioni particolari.

Infatti – come ha recentemente sperimentato il team giapponese diretto da Aikawa dell’Università di Tokyo in collaborazione con l’American Institute of Physics – un circuito basato su transistor CNT può venire non solo piegato, ma completamente “stropicciato” (Fig. 8) senza tuttavia perdere la sua funzionalità né le sue caratteristiche elettriche. Grazie ai transistor CNT, inoltre, possono essere realizzati circuiti completamente trasparenti, eliminando l’oro dei contatti (poco trasparente) e l’ossido ITO per le connessioni, trasparente ma troppo fragile. Ciò permette quindi di realizzare dispositivi elettronici indossabili e pressoché invisibili.

Fig. 8 – Un circuito basato su transistor CNT può venire “stropicciato” senza perdere né funzionalità e caratteristiche elettriche

Altre ricerche (ad esempio presso i laboratori del NIST) hanno altresì dimostrato che – al di là dell’impiego nei transistor CNT – i nanotubi di carbonio possono proficuamente essere utilizzati come innovativo materiale conduttore al posto dell’ITO (ossido di stagno e indio) nei display a cristalli liquidi e nelle celle solari, grazie al fatto che si possono ottenere contemporaneamente robustezza, trasparenza e assoluta mancanza di fragilità, ch
e penalizza oggi gli impieghi dell’ITO nei dispositivi flessibili.

Dispositivi a nanocristalli
Nei mesi scorsi un team multinazionale di ricerca ha sviluppato un processo per realizzare un tipo innovativo di dispositivi fotoemettitori, che sfrutta l’inserimento di nanocristalli entro un substrato di vetro, in grado di produrre un’emissione ultravioletta. Gli impieghi previsti riguardano soprattutto la diagnostica ambientale e biomedica. I dispositivi prodotti con il nuovo processo si dimostrano infatti facili da fabbricare, robusti e stabili chimicamente.

La maggiore difficoltà incontrata dal team (una collaborazione fra il Los Alamos National Laboratory e l’università di Milano Bicocca) è stata quella di ottenere un’emissione nell’ultravioletto, come riporta il giornale online Nature Communication. Nel campo biomedico vi è infatti la necessità di disporre di sorgenti nell’ultravioletto per essere impiegate sia nei cosiddetti “lab-on-chip”, sia per essere impiantate nell’organismo al fine di innescare alcune reazioni fotochimiche, come ad esempio migliorare i trattamenti clinici tramite l’attivazione di taluni farmaci fotosensibili, oppure consentire una diagnosi più dettagliata nelle analisi che utilizzano marcatori fluorescenti. Questo è il motivo per cui tali dispositivi debbono poter essere fabbricati facilmente, in maniera economica, su larga scala e utilizzando tecnologie compatibili con gli attuali processi basati su silicio.

L’emissione luminosa – centrata sui 390 nm – avviene in corrispondenza della transizione fra la superficie dei grani nanocristallini interni di biossido di stagno SnO2 e il rivestimento di ossido SnO con interfaccia a SiO2, il cui spessore deve essere controllato accuratamente, in quanto determina le caratteristiche elettroluminescenti del dispositivo. I nanocristalli vengono poi dispersi entro uno strato vetroso.
Un altro settore sicuramente promettente dove è possibile trarre vantaggio dall’impiego dei nanocristalli, è rappresentato dalle memorie Flash, dove da vari anni si susseguono i lavori di ricerca, di recente sfociati in alcune realizzazioni commerciali. È il caso ad esempio di Freescale, che ha presentato due nuove famiglie di microcontroller a 32-bit (e precisamente Kinetis e ColdFire+) che integrano un array di memoria non-volatile di tipo Flash denominata però FlexMemory.

Perché mai questo cambio di denominazione? La spiegazione risiede proprio nella nuova tecnologia utilizzata per realizzare la memoria interna Flash-like. Freescale ha infatti utilizzato una nuova tecnologia che impiega nanocristalli annegati nello strato di ossido di gate (Fig. 9), con il vantaggio di ottenere prestazioni superiori alle normali Flash, minimizzando la dispersione della carica elettrica confinata. Questi “nanograni” hanno un diametro di 10-15 nm, sono spaziati di 7-8 nm e sono organizzati in un array che costituisce un sottile film di semisfere circondate da ossido di silicio che ne garantisce l’isolamento; ogni cella consiste di circa 200 grani. Eventuali difetti o fenomeni di dispersione riguarderanno eventualmente solo i pochi elettroni confinati nel nanocristallo interessato, senza quindi penalizzare l’intero array di grani e quindi la cella.

Fig. 9 – Microfotografia al microscopio elettronico della cella di memoria TFS FlexMemory TFS di Freescale basata su nanocristalli di silicio in luogo del tradizionale floating-gate policristallino

La società garantisce infatti fino a 10 milioni di cicli di cancellazione-scrittura e tempi di lettura di 30 ns e di scrittura di 100 ns. La tecnologia, denominata TFS (Thin Film Storage) è basata su geometrie da 90 nm che impiegano nanocristalli di silicio come elementi per l’immagazzinamento delle informazioni in luogo del tradizionale floating-gate policristallino (in Fig. 10 il confronto tra le due soluzioni). L’array di nanograni viene ottenuto con un processo di CVD (Chemical Vapor Deposition) e non richiede la complessità di un tradizionale processo dual-poly.

Fig. 10 – Confronto tra una cella di memoria floating-gate tradizionale e una a nanocristalli

Paolo De Vittor



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