Fra le novità che stanno gradatamente ma inesorabilmente cambiando, il grande comparto dell’elettronica va senza dubbio rilevata la rinnovata interoperabilità con le tecnologie medicali, dovuta alla continua miniaturizzazione dei sistemi integrati capaci oggi di contenere funzionalità elettroniche, meccaniche, chimiche e persino farmaceutiche, in dimensioni confrontabili con quelle degli organismi biologici e dei tessuti umani.
Al tempo stesso si sta verificando un forte progresso dei dispositivi elettronici indossabili che, oltre ad animare un’ampia varietà di funzionalità consumer, sono oggi in grado di supportare svariate mansioni medicali e farmaceutiche, sia nel sostegno alle terapie, sia nel monitoraggio delle attività sportive. Inoltre, i dispositivi elettronici medicali possono essere un’importante risorsa per la prevenzione delle emergenze sanitarie di ogni tipo come le recenti pandemie di virus influenzali oppure nel controllo batteriologico sugli alimenti.
A conferma di ciò si trovano due analisi: IDTechEx nel suo report di febbraio “Wearable Technology 2014-2024: Technologies, Markets, Forecasts” prevede una crescita degli apparecchi elettronici indossabili dai 14 miliardi di dollari di quest’anno fino ai 70 miliardi entro il 2024, citando le applicazioni medicali come la tecnologia indossabile trainante, mentre nel recente report “Wearable Technology for Animals 2015-2025” prevede una altrettanto importante crescita dagli attuali 2,6 milioni di dollari a circa 1 miliardo nel 2025 per le applicazioni indossabili destinate al monitoraggio della salute degli animali nonché a migliorare la tracciabilità degli alimenti.
Marketsandmarkets scrive nel report “Medical Bionic Implant Market – Trends and Global Forecast to 2017” che gli impianti bionici ossia gli organi artificiali o artificialmente comandati cresceranno con Cagr del 7,1% fino al 2017 quando registreranno un valore globale di 17,82 milioni di dollari trainati soprattutto dagli organi sensoriali a controllo elettronico.
Queste previsioni riguardano pur sempre piccoli dispositivi con funzionalità specifiche e localizzate su particolari organi o tessuti, dato che sono ancora lontani i sistemi neuromorfici già annunciati in alcune riviste. In effetti, nei laboratori IBM stanno studiando come superare l’architettura di Von Neumann e fabbricare CPU molto più somiglianti al nostro cervello. Provano cioè a fare sul silicio una rete di neuroni o unità elementari di calcolo algebrico, ciascuna delle quali capace di collegarsi con altre 256 unità e perciò interagire selettivamente stabilendo o interrompendo di volta in volta le connessioni che interessano il tipo di operazione da eseguire. Il chip neurale IBM riesce a gestire centinaia di migliaia di connessioni sinaptiche e eseguire calcoli complessi con velocità diecimila volte superiore a quella delle architetture di Von Neumann, ma per ora i costi sono ancora troppo elevati per presumerne dei tempi di ingresso sul mercato e quindi per i computer neuromorfici si dovranno attendere nuovi sviluppi.
Il programma Subnet (Systems-Based Neurotechnology for Emerging Therapies) del Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) sta studiando come comprendere le funzioni cerebrali e anche le sue disfunzioni in modo da poter ingegnerizzare l’interazione fra il cervello e il sistema nervoso e riuscire così a definire delle tecniche di elaborazione utili a capire come sostituire artificialmente quelle parti che possano avere subito lesioni gravi. È noto che il cervello umano ha la proprietà di auto adattarsi ed è perciò che la ricerca mira a sviluppare le interfacce che consentano di collegare le funzionalità neuronali con i loro terminali applicativi che sono i nervi, gli organi sensoriali e i muscoli che ne eseguono i comandi.
Il progetto va avanti stimolando i ricettori neuronali e verificando gli effetti sui tessuti organici in tempo reale allo scopo di trovare come sopperire alle eventuali problematiche medicali o psichiatriche presenti con adeguati rimedi elettronici. Parallelamente, al Darpa portano avanti gli studi sulla “propriocezione” o ‘proprioception’ che significa avere coscienza della posizione del proprio corpo nello spazio e dello stato di contrazione dei propri muscoli senza bisogno della vista ma utilizzando i sensori propriocettivi ossia alcune terminazioni nervose collegate a ben precisi punti del cervello, dove riescono a dare sensazione dei cambiamenti di postura. Il programma “Hand Proprioception and Touch Interfaces”, Haptix, mira a comprendere questi meccanismi per poter offrire un’adeguata naturalezza d’utilizzo a tutti quelli che devono ricorrere a un qualsiasi impianto bionico.
Sono le Brain-Machine Interfaces, o BMI, già ampiamente sperimentate per lo sviluppo delle moderne consolle di gioco e perciò attorniate da una considerevole base di progettisti e sviluppatori competenti in materia. Grazie a queste ricerche potremo vedere ben presto sul proscenio, i cosiddetti “biobot” o robot biologici che sapranno integrare appieno le tecnologie micro-elettro-meccaniche, le biotecnologie e le nanotecnologie.
Robot dentro e batterie fuori
Sembra appurato che opportuni impianti elettronici sul cervello possano curare il panico, la depressione e l’epilessia grazie a stimoli elettrici capaci di attenuare i segnali neuronali corrispondenti o rafforzare quelli opposti con buoni risultati, evitando le complicazioni chimiche o peggio radioattive che procurano molti attuali rimedi farmaceutici. L’unico guaio che hanno gli impianti elettronici è la necessità di alimentazione elettrica ossia di una batteria locale con un’autonomia pur sempre limitata che richiede quindi un ricambio periodico, a meno che non sia possibile implementare una tecnologia per il recupero dell’energia locale (energy harvesting) che risolvere il problema solo a patto di impiantare sottocute un secondo dispositivo elettronico e ciò può diventare invasivo soprattutto se si tratta di impianti vicini al cervello dove occorre limitare il più possibile le dimensioni dei dispositivi installati.
Questo campo di ricerca è particolarmente ricco di attività e recentemente un gruppo di ricerca della Stanford University capitanato dalla professoressa Ada Poon ha escogitato una tecnologia che permette di alimentare senza fili ma a breve distanza, ossia “near-field” che significa uno o due cm al massimo, i chip inseriti dentro il corpo e perciò far si che all’interno possa restare solo l’impianto medicale senza batteria e senza secondo chip di recupero energia. La batteria rimane fuori e quindi si può gestire e sostituire senza bisogno di un intervento chirurgico, ossia limitando l’invasività al minimo possibile.
Il prototipo è costituito da un solenoide lungo appena 2 mm accoppiato con una sottile piastra metallica ampia 36 cm2 capace di irradiare attraverso ben 2 pollici ossia oltre 5 cm di tessuti organici ben 2000 µW di potenza che è circa 250 volte superiore rispetto ai tipici 8 µW degli attuali pacemaker, ma riducendone le dimensioni di circa 20 volte grazie alla mancanza della batteria e, inoltre, con il vantaggio che bastano dieci minuti di ricarica a casa propria per avere energia per mesi. Oltre al minor fastidio per i pazienti, ciò consentirebbe di mettere a punto svariate terapie non solo mirate al cuore, ma utili per esempio nella stimolazione nervosa o neuronale che consentirebbe di curare efficacemente le malattie cerebrali con impianti indossabili che potrebbero eliminare il ricorso alla chirurgia o ai farmaci più rischiosi.
Energy harvesting con il cuore
All’University of Illinois, dipartimento Urbana-Champaign, hanno escogitato quello che può definirsi un “nano moto perpetuo” con funzionalità medicali che può rivelarsi come una delle più importanti scoperte di quest’epoca. In pratica, i ricercatori alla guida di John Rogers hanno realizzato un piccolissimo sensore formato da lamine nanometriche con proprietà piezoelettriche, che può essere utilizzato per il recupero dell’energia anche all’interno del nostro organismo. In pratica, il prototipo realizzato può essere appoggiato direttamente sui tessuti del cuore per contrarsi o distendersi insieme alle sue pulsazioni e produrre così una differenza di potenziale sufficiente a generare un po’ di energia che può essere usata per alimentare un pacemaker installato proprio nelle sue vicinanze allo scopo di regolare il ritmo delle pulsazioni.
Le sperimentazioni hanno addirittura consentito di verificare che si può riuscire a produrre in questo modo una tensione fino a ben 8 Volt, sufficiente per alimentare micro apparecchi medicali anche ben più sofisticati di un pacemaker. Inoltre, la robustezza di questi piezoelettrici è stata calcolata in almeno 20 milioni di cicli di compressione e rilassamento, che sono abbastanza per poter garantire decine d’anni di funzionamento senza discontinuità e perciò eliminare tutti gli interventi chirurgici oggi necessari per cambiare le pile non solo ai pacemaker ma a qualsiasi altro tipo di apparecchio elettronico medicale impiantato sotto cute.
Nei dettagli, si tratta di un array di dodici elementi formati da dieci Mechanical Energy Harvester (MEH), ciascuno dei quali è composto da uno spessore di 500 nm di piezoelettrico (zirconato di piombo titanato o lead zirconate titanate, PZT) incapsulato fra un elettrodo superiore fatto con 10 nm di cromo e 200 nm di oro e un elettrodo inferiore fatto con 20 nm di titanio e 300 nm di plutonio. I dodici elementi sono connessi in serie e chiusi in un involucro ermeticamente isolato e assolutamente biocompatibile, tale da non aver dimostrato effetti di citotossicità in alcuno dei tessuti organici dove è stato sperimentato oltre al cuore e cioè anche su altri muscoli e persino vicino agli organi sensoriali. Si tratta, dunque, di una soluzione che può dimostrarsi utile per alimentare gli impianti bionici previsti in continuo aumento nei prossimi anni.