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Reshoring e chips act: l’Europa è pronta?ERT

La supply chain dei componenti elettronici e delle materie prime continua a navigare in mari agitati e si sta preparando a un’ulteriore trasformazione. Alcuni fra i maggiori produttori mondiali di prodotti elettronici si sono resi conto che, a causa dei mercati divenuti instabili, nonché i recenti eventi geopolitici ed economici degli ultimi cinque anni, la soluzione per poter ristabilire un certo equilibrio sarebbe stata quella di un (iniziale) ritorno di parte della produzione nelle vicinanze delle aree produttive.

Il fenomeno è in netta contrapposizione con ciò che ha avuto inizio oltre vent’anni fa, ossia una delocalizzazione verso le aree produttive localizzate per lo più nei paesi asiatici. Un altro fattore determinante è quello del recente pacchetto di norme varato dall’Unione Europea – il Chips Act – che incentiva il ritorno (in realtà una parte, come vedremo di seguito) alla produzione nel vecchio continente.

Le ragioni di questa transizione sono state già state ampiamente discusse e sono numerose, una su tutte l’impatto sui mercati della guerra in corso, ma vanno anche ricercate in ciò che si stava profilando all’orizzonte anni prima per quanto riguarda le materie prime. Ancora prima del periodo pandemico era oramai chiaro che l’aumento di domanda di chip, i mutati scenari energetici come anche la digitalizzazione, avrebbero portato a una situazione imprevedibile. Imprevedibile perché, ad esempio, vent’anni fa nessuno avrebbe predetto che il trasporto su gomma avrebbe prepotentemente richiesto la trazione elettrica e di conseguenza un incremento esponenziale nella domanda di veicoli elettrici. A quei tempi, nessuno avrebbe preso in considerazione in modo serio i cambiamenti climatici e ciò che ha comportato (vedi Agenda Zero Emission 2050). Nessuno avrebbe previsto gli sconquassi e le problematiche dei combustibili fossili che avrebbero culminato lo scorso anno nelle vicende del gas naturale. Tutto ciò ha obbligatoriamente accelerato la corsa alle energie rinnovabili, a nuove tecnologie e alla richiesta di batterie.

Lo scorso anno Luca Negri – Country Manager di GPBM Italy – aveva parlato dello shortage delle batterie e di come l’approvvigionamento di materie prime (e di chip) stava mettendo in seria difficoltà i produttori. Aveva inoltre discusso di rigenerazione, con l’estrazione delle materie prime ancora fruibili dalle batterie esauste, per poi proseguire analizzando lo scenario delle gigafactory.

In questa intervista  Luca Negri spiega come si presenta la situazione un anno dopo.

Il pacchetto Chips Act è stato varato all’inizio del 2022. Quali impatti, se ci sono già, sta avendo sulla produzione europea?

Faccio una premessa: c’è oramai la consapevolezza di una necessaria maturità delle industrie di fronte ai mutati scenari internazionali e l’European Chips Act è il primo segnale scritto che lo conferma o, per lo meno, è l’inizio di un intento più che serio. Purtroppo, l’Europa sta scontando un ritardo nel proseguire il cammino della transizione digitale, ma in particolar modo ora, viste le condizioni politico-economiche, anche su quella energetica.

Come era già evidente lo scorso anno, sarebbe stato più che logico aspettarsi il forte aumento di domanda di semiconduttori e batterie, non solo quelli destinati agli EV ma anche per il resto dei dispositivi elettronici. Detto questo, va aggiunto che il mondo, con la transizione digitale, sta andando verso la gestione di enormi quantità di dati e questi ultimi ahimè richiedono un quantitativo di energia più che proporzionale per essere prodotti e conservati. Gli obiettivi dell’European Chips Act sono molteplici: entro il 2030 il pacchetto di norme prevede di raddoppiare la quota di produzione europea dei semiconduttori, dal 10 al 20%. Tanto per dare un’idea, nel 2020 nel mondo sono stati prodotti circa mille miliardi di microprocessori, di cui per l’appunto il 10% in Europa. L’European Chips Act prevede incentivi per un totale di 43 miliardi di euro per tutta una serie di operazioni, fra le quali investimenti nelle tecnologie di prossima generazione, favorire gli investitori per la creazione di impianti produttivi nell’area europea, rispondere alle carenze e garantire più sicurezza nell’approvvigionamento, incentivare prototipazione, test e sperimentazione di semiconduttori all’avanguardia. Pertanto, è trascorso un anno dall’emanazione dell’European Chips Act e qualcosa sta iniziando a muoversi, quindi questo pacchetto di normative avrà senz’altro un impatto sull’industria europea, ma ci vuole tempo.

Per quanto riguarda le materie prime e la loro carenza, quali cambiamenti porterà il Chips Act?

La domanda di dispositivi elettronici e batterie è in costante incremento e si prevede che, nel caso del litio, la richiesta possa aumentare di oltre 20 volte entro i prossimi trent’anni. Come il litio, anche nickel, rame, grafite e le terre rare saranno sempre più necessarie per raggiungere gli obiettivi posti dall’European Chips Act. Oltretutto, gli obiettivi di decarbonizzazione stanno accelerando il ricorso ai sistemi di generazione energetica attraverso le rinnovabili nonché i sistemi di stoccaggio dell’energia; ciò contribuisce ad aumentare ulteriormente la richiesta.

Come avevo auspicato lo scorso anno, l’UE sta spingendo per mettere a punto per le batterie una filiera circolare, affinché sia possibile estrarre dalle celle esauste gran parte del materiale necessario a una nuova produzione. Oltre a un processo di reshoring, è previsto l’aumento del tasso di rigenerazione delle materie prime. Anche i metalli recuperati dal RAEE contribuiscono ad attenuare la carenza di materia prima grazie al fatto che le tecnologie applicate ai processi di rigenerazione hanno fatto molti passi avanti. Anche in questo scenario è necessario del tempo per predisporre una filiera che possa essere efficace. Ciò che vuole incentivare l’European Chips Act è una strategia coordinata a livello comunitario per favorire rigenerazione e riutilizzo dei materiali.

Mi piace far notare che ben prima del Chips Act, circa tre anni fa, nel nostro Paese è stata messa a punto e brevettata una nuova tecnologia, sviluppata da Cobat e dall’Istituto del CNR ICCOM. Questa tecnologia permette il recupero pressoché integrale dei metalli contenuti nelle batterie esauste. Da questo si evince che, ancora prima degli effetti dello shortage delle materie prime, vi era già la consapevole propensione a porre rimedio a quello che sarebbero stati gli effetti qualche anno dopo. Riguardo alle nuove tecnologie per la rigenerazione, l’Italia non è l’unica ad utilizzarle perché le sperimentazioni in atto sono già tante anche se però esempi concreti si limitano ancora a iniziative di alcuni produttori. Ad ogni modo, se si analizzano i dati forniti dall’UE riguardo alla rigenerazione delle batterie portatili danno una chiara indicazione di come ci si stia impegnando per recuperare le materie prime. Secondo un report (fonte Eurostat, rapporto del 2021) in 10 anni, dal 2009 al 2019 in Europa la quantità di materia rigenerata proveniente da batterie esauste è raddoppiata; da 50k ton a 100k ton. E se si considera questa quantità in relazione al volume di batterie vendute, nel 2009 il materiale recuperato era meno di un terzo rispetto alle vendite (150k ton) mentre nel 2019, a seguito di 200k ton vendute, si attesta al 51%; in questo scenario l’Italia, nei confronti della media europea ha registrato valori di poco inferiori, introno al 43%.

Come si sta muovendo GPBM per quanto riguarda le materie prime per i suoi prodotti?

Lo scenario energetico attuale ha obbligato all’incremento dell’uso di energie rinnovabili e quindi le batterie giocano ancora una volta un ruolo primario. Voglio sottolineare che fra batterie dedicate agli EV e quelle destinate agli impianti di generazione di energia sotto forma di Energy Storage System, non vi è molta differenza, poiché la filiera e il ciclo di vita fra le due tipologie non varia di molto. Riguardo le materie prime per produrre le celle, è impossibile fare a meno di alcune tipologie ma è possibile fare a meno di altre: i metalli come litio, cobalto, nickel, ecc… al momento sono fondamentali, ma non bisogna dimenticare che parallelamente alle tecnologie per la rigenerazione vi sono anche quelle che consentiranno di trovare nuove tipologie di accumulatori e non è detto che questi ultimi richiedano le materie che oggi vanno per la maggiore. È altrettanto importante avere una strategia che generi beneficio sia per l’azienda che per il consumatore: ad esempio GPBM punta moltissimo nell’incentivare il ricaricabile poiché così possono allungarsi i tempi di vita delle batterie; nel caso delle batterie per uso domestico 500 ricariche equivalgono all’acquisto di oltre 3000 batterie usa e getta. In questo modo, se una batteria dura di più sarà necessaria una quantità inferiore di materie per produrne delle nuove, e il processo di rigenerazione sarà meno oneroso perché i volumi da trattare saranno inferiori. Inoltre, per quanto riguarda le batterie industriali, GPBM si sta impegnando a fondo per perfezionare il processo di ricondizionamento per destinarle a una seconda vita; una soluzione di questo tipo è in grado di attenuare in qualche modo la mancanza di materie prime grazie al fatto che il processo avviene solo quando è necessario ed è localizzato alle celle esauste.

Rispetto a quanto affermato nel 2022 quali possono essere le previsioni per i prossimi anni?

I segnali di cambiamento in questo senso sono già stati lanciati e percepiti, ora sta alle aziende cogliere l’occasione per rivedere l’intera supply chain di materie prime e prodotti. Occorre tenere sempre in considerazione che nessuno ha la bacchetta magica per un cambiamento in poco tempo, però adesso è il momento di iniziare ad agire. L’UE sta cercando di agevolare le industrie per iniziare ad essere meno dipendente da contesti come quello che stiamo vivendo e di questo fattore anche i grandi produttori ne stanno prendendo finalmente atto. Sinceramente non vedo altre strade se non quella di cambiare decisamente rotta iniziando ad agevolare il cambiamento ancora prima degli interessi economici.