Ovvero interesse privato o interesse generale
Tenente, perché quei due cacciabombardieri sono fermi da due mesi negli hangar?
Signor Colonnello, la società che si occupa della manutenzione sta aspettando i pezzi di ricambio dalla Cina.
Ingegnere, perché per gestire il pannello di comando della nostra centrale idroelettrica stiamo utilizzando il computer di riserva?
Signor Direttore, siamo in attesa del tecnico inviato da una società di Taiwan per riparare il computer primario.
Ingegnere, la nostra centrale regola il traffico di migliaia di linee telefoniche e abbiamo due apparati nevralgici non funzionanti da parecchio tempo. Stiamo creando disservizi con proteste degli utenti, alcuni anche istituzionali, e corriamo il rischio di forti penali per la nostra società. Cosa aspettiamo per intervenire?
Signor Direttore, a causa di rivalse politiche che nulla hanno a che fare con noi, il governo cinese tarda a concedere la licenza di esportazione al nostro fornitore di impianti.
Chiediamoci se questi dialoghi, e tanti simili, siano da considerarsi frutto di pura fantasia o quanto, purtroppo, potrebbe verificarsi effettivamente.
Tanti settori dell’industria lo stanno già subendo con la scomparsa di fornitori di componenti, semilavorati, macchine, impianti e servizi di assistenza. Siamo già sotto potenziale ricatto.
Tutto questo perché una classe politica poco lungimirante ha sognato un mondo senza confini, gran bella cosa, ma non si è imposta una strategia per realizzarlo.
Ad esempio, è lodevole l’aiuto finanziario che la Comunità Europea fornisce alle aziende dei Paesi aderenti che vogliono espandersi oltre il territorio comunitario, per favorirne l’internazionalizzazione.
Sarebbe però anche corretto imporre che quanto prodotto in tali strutture fosse venduto nei Paesi dove viene realizzato e non importato da noi, facendo concorrenza sleale ai produttori locali che devono rispettare regole sconosciute in altri Paesi.
In pratica, paghiamo tasse che vanno a finanziare coloro che faranno chiudere le nostre aziende.
Il risultato è il vedere come, a causa dei tanti che si sono improvvisati commercianti a danno della struttura industriale europea e per il beneficio di pochi, si siano creati grandi problemi economici nel presente ed enormi rischi per la nostra sicurezza nel futuro.
Ovviamente, con l’acquiescenza colpevole delle autorità. Autorità nel senso di detentori del potere e non di persone con capacità ed etica delegate a effettuare scelte di lungo respiro per il bene dei popoli.
Oltretutto, grandi economisti, sempre bravi a spiegarci il perché di quello che è successo in passato e scarsi nel fare previsioni corrette per il futuro, predicano che per tenere bassa l’inflazione dobbiamo sfruttare i popoli dei Paesi emergenti e rottamare i nostri operai o, con la bacchetta magica, trasformarli in ingegneri che realizzano produzioni fantascientifiche. Sarebbe interessante sapere con quali soldi il popolino potrebbe comprare gli oggetti a basso costo, oltretutto portandosi in casa chissà quali veleni.
I punti critici sono tanti. Noi ci limitiamo a guardare il settore dell’elettronica, che è il nostro ed è già sufficientemente significativo per le gravi implicazioni che comporta.
Tutti i servizi essenziali sono governati da apparecchiature elettroniche, da quelle che consentono il nostro benessere casalingo alle strutture preposte alla sicurezza e difesa dello Stato.
Per non stilare un elenco interminabile di reti di comunicazione, impianti di produzione dell’energia, trasporti, reti informatiche, mezzi della protezione civile e delle forze dell’ordine, pensiamo, come esempio fra le tante possibilità, ai dispositivi cripto fonici di esercito e forze dell’ordine.
Poiché già ora sono costruiti con componenti che non si producono più in Europa, un domani i nostri militari li andranno a comprare al negozio dell’avversario? È pur vero che i codici di transcodifica sono noti ai soli utenti, ma un minimo di diffidenza, o almeno cautela, nei confronti dei costruttori ci vorrebbe. Le porte delle stanze degli alberghi si aprono solo con la chiave del cliente, la chiave del portiere le apre tutte. Quando mandiamo una email, quanti sono i destinatari oltre quelli indicati da noi?
Si parla tanto di cyber guerra, possiamo illuderci di condurla con apparecchiature elettroniche prodotte in Paesi con regimi discutibili? Va bene la real politic e farci affari alla grande, facendo i distratti sulla questione dei diritti umani, ma un minimo di attenzione è dovuto.
Per parlare di un uso virtuoso dei sotterfugi che le nuove tecnologie consentono, è utile ricordare, da indiscrezioni di stampa, come gli israeliani non abbiano avuto bisogno di inviare aerei per rallentare il programma nucleare iraniano, ma sia stato sufficiente omaggiare i sistemi telematici degli ayatollah con un grazioso virus informatico studiato per l’occasione. Non sappiamo se la notizia sia vera, ma il solo diffondersi di un’ipotesi del genere avrà certamente indotto i tecnici iraniani a una grande cautela, con incrementi di tempi e costi nella realizzazione dei loro programmi. Peraltro sono sempre più frequenti le notizie di attacchi informatici a reti governative da parte di numerosi hacker con partenza da server localizzati in Cina. Saranno sempre dei giovani burloni o sono attività ben pianificate?
D’altronde, se nei film d’azione di un tempo il protagonista sfidava pericoli inimmaginabili per sabotare il covo del maligno di turno, oggi un drone americano in vacanza nel cielo afgano può essere benissimo teleguidato da un militare comodamente seduto in un ufficio del Texas. Un domani i nostri militari contano di tutelare la nostra sicurezza con computer, telefonini, chiavette usb e chissà cos’altro comprato in un anonimo supermercato?
Se guardiamo le statistiche Eurostat e, sull’andamento degli ultimi anni, proviamo a fare delle proiezioni, risulta difficile essere ottimisti; il declino dell’industria europea appare inarrestabile.
La produzione autoctona di circuiti stampati, componenti indispensabili in una qualunque apparecchiatura elettronica, è crollata di due terzi nell’ultimo decennio, determinando a sua volta il dissolvimento di tutto l’indotto, indispensabile per la sua sopravvivenza.
Eppure, certi acquisitori, che già oggi ricevono conferme d’ordine da alcuni fornitori di componenti elettronici con tempi di consegna ad un anno, dovrebbero chiedersi quale trappola nascondano offerte di circuiti stampati con prezzi al di sotto dei costi delle materie prime.
Tuttavia, aldilà di tanti discorsi che quando sono chiari, molto raramente, si limitano ad un elenco di buone intenzioni, nessuno assume iniziative concrete o, addirittura, si dichiara che chiunque si limiti a fare impresa solo in Europa non sa approfittare delle grandi opportunità che la globalizzazione offre.
È chiaro che le posizioni estremiste non hanno mai senso. Se è vero che la globalizzazione porta indubbi benefici, con spinta all’innovazione e maggior circolazione di informazioni, è altrettanto vero che gli abusi indiscriminati portano guai. Sui benefici siamo tutti d’accordo, i guai sono altrettanto evidenti già ora, prima che si avverino scenari catastrofici ma, purtroppo, non tanto surreali.
È comprensibile che i prodotti, risultanti da intensa lavorazione manuale, arrivino ormai solo da Paesi in via di sviluppo e con tanta voglia di dare un giusto tenore di vita a popoli in condizioni indigenti e non degne dell’essere uomo. È altrettanto accettato che non si possa pretendere da tali paesi di riconoscere, in una prima fase, diritti ai lavoratori pari a quelli ormai, giustamente, consolidati presso la nostra società e, anche, si mostri flessibilità su tutte le altre modalità operative
delle loro produzioni. Altro aspetto certamente lodevole è il dovere morale di mettere le nostre conoscenze a disposizione di persone meno fortunate. Senza dimenticare che i legami commerciali sono il miglior antidoto ai conflitti e il mezzo più efficace per rafforzare un contesto di pace.
Tutto ciò premesso e considerata la situazione che abbiamo di fronte, sorge spontanea la domanda: chi deve fare cosa? I privati, la classe politica o, forse, entrambi? Le aziende hanno come fine primario il fare utili, è la loro ragione di esistere e tutta la loro operatività, ricerca, formazione, produzione e servizi conseguenti, è indirizzata alla realizzazione di reddito e a tutto quello che presuppone una prosecuzione dell’attività.
Perciò, un imprenditore che agisca in un quadro normativo legittimamente accettato, può approfittare di tutte le opportunità che il mercato offre, anzi per statuto è obbligato.
Sviluppare iniziative in aree con condizioni più convenienti rispetta l’oggetto sociale dell’azienda, anche se conduce, qui da noi, alla chiusura di stabilimenti che operano in condizioni non competitive.
Molte volte questo comporta distruzione di conoscenze acquisite in decenni, cancellazione di opportunità per i giovani, eliminazione di collaborazioni con scuole e atenei per programmi di ricerca congiunti e gravi riflessi sulla collettività, con aumento della disoccupazione e onerosi aggravi degli ammortizzatori sociali.
Nonostante la legittimità di tutte queste considerazioni, nulla si può imputare a un imprenditore che opera nell’interesse proprio e dell’azienda che rappresenta. Il tutto in conformità alle leggi vigenti e con relativo pagamento di tasse.
Non siamo maliziosi e non vogliamo pensare a possibili triangolazioni con noti paradisi fiscali.
Se poi consideriamo tutti gli oneri che politici e burocrati si sono preoccupati di addossare alle aziende, la vera domanda che ci si pone è: perché fermarsi in Europa?
Infatti, anche se non si può dimenticare che, secondo la prassi di un corretto risk management, uno degli obiettivi di un’azienda ben guidata dovrebbe essere la garanzia di approvvigionamenti costanti, in qualità e consegne, per evitare fermate di linee produttive, la lista dei fattori che frenano la nostra competitività supera le umane possibilità.
È tutto perduto? No! Una critica sterile senza proposte è un’inutile piangersi addosso. Si possono avviare tante azioni di diversa portata e su vari fronti. Nel nostro piccolo, proviamo a dare qualche suggerimento senza alcuna pretesa di essere esaustivi. È evidente a tutti che ci sono le condizioni per imporre dazi all’importazione, nulla da inventare: gli stessi che altri Paesi applicano. Nel caso dei circuiti stampati, per importare in Cina si pagano dazi che vanno dal 35% al 50% per importare dalla Cina in Italia il dazio è zero. Sarebbe semplicemente da riaffermare un principio che anche chi non è un principe del foro conosce, quello della reciprocità. Se non questa, o in attesa di trovare il coraggio di farlo, altre linee sono immediatamente praticabili come l’effettuare controlli seri sulla sicurezza delle merci importate, come previsto dal REACH, e stimolare l’acquisto di prodotto europeo.
Il regolamento REACH, che dovrebbe disciplinare l’uso di tutte le sostanze chimiche e dei loro composti o formulati nei tre stati di aggregazione circolanti sul territorio comunitario, perciò praticamente tutto, è in vigore, per le aziende europee, già da tempo, ma ancora non si parla di controlli sul campo.
Da una parte, rappresenta un costo e un ulteriore fastidio, ma dall’altra è certamente un tentativo serio per evitare l’impiego indiscriminato di sostanze tossiche in oggetti di uso quotidiano e la creazione di bombe ecologiche quando saranno smaltiti in discarica a fine utilizzo.
Se fosse preso sul serio, si dovrebbe applicare anche a tutto ciò che viene importato entro la Comunità. Sarebbe semplice, basterebbe dare uno sguardo agli elenchi doganali.
È immaginabile l’effetto prorompente che avrebbe la notizia di un controllo in un’azienda che avesse importato, senza crearsi tutti gli impicci che ci poniamo noi, e poi vedesse trasformarsi i prodotti finiti in magazzino e i semilavorati in produzione da occasione di lucroso fatturato in costo per smaltimento di rifiuti tossici. Con l’aggiunta della relativa sanzione.
Nel frattempo, è così difficile chiedere alle amministrazioni degli Stati di imporre ai loro fornitori di approvvigionarsi con prodotti realizzati, non solo commercializzati, in Europa? I quattrini nelle casse degli Stati sono le tasse pagate dai cittadini. Solo per fare alcuni semplici esempi, quanta elettronica acquistano in Italia: Finmeccanica, Ansaldo, Enel, Telecom; in Francia: Alcatel, Thales, EDF, Airbus, France Telecom; in Germania: Siemens, Deutsche Telekom e tante altre società legate da licenze o commesse pubbliche?
Anziché pagare sussidi di disoccupazione, gli Stati potrebbero obbligare i fornitori ad alimentare le aziende locali. La Cina lo fa.
Sappiamo benissimo che sono scelte che possono avere un peso economico immediato e che queste società devono presentare bilanci trimestrali, e che sui profitti si calcolano i bonus per gli amministratori. È anche umanamente comprensibile che gli amministratori si preoccupino del loro periodo di gestione e la scarsa lungimiranza sarà un problema di chi viene dopo. Sappiamo anche che qualche zelante e interessato solone potrebbe avere da obiettare, in ambito WTO, su presunte violazioni di regole. La risposta sarebbe semplice e chiara, richiamare gli interessi basilari della Comunità, l’abnorme distruzione della produzione europea e far finalmente presente il sacrosanto principio di reciprocità, troppo a lungo negletto.
Ad ogni modo, un punto già previsto nei trattati internazionali è la salvaguardia dei servizi essenziali e l’elettronica li governa tutti.
Le procedure comunitarie prevedono dei meccanismi di tutela di settori produttivi, ma questi presuppongono l’accordo di una percentuale importante dei produttori locali. Faccenda semplice a dirsi, ma che si scontra con tanti operatori i quali hanno più interesse a trafficare che a far girare le proprie aziende.
Una classe politica attenta al futuro dei propri rappresentati deve sentire l’obbligo di intraprendere decisioni anche difficili e saper assumere l’onere di difendere gli interessi presenti e futuri della Comunità.
Certo, ci vuole coraggio e qui avanza la tristezza, ma ci conforta la speranza. Un cambiamento è indifferibile.