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Energy harvesting triboelettricoERT

Sono molte le tecnologie sviluppate negli ultimi anni per il recupero dell’energia dispersa e fra esse si sta facendo strada la possibilità di utilizzare a tal scopo l’effetto triboelettrico, leggermente diverso e forse meno celebre rispetto all’effetto piezoelettrico, ma altrettanto promettente dal punto di vista applicativo, grazie ai recenti studi compiuti alla School of Materials Science and Engineering del Georgia Institute of Technology dal gruppo di ricerca capitanato dall’esimio prof. Zhong Lin Wang, considerato un luminare in entrambe le tecnologie.

Cariche elettrostatiche indotte

L’effetto triboelettrico ha origini antiche perché lo notarono i greci sull’ambra che si caricava elettricamente per strofinio e dato che allora l’ambra si chiamava “electron” fu così che il suo nome venne poi dato agli elettroni. Tuttavia, il fenomeno è molto più diffuso in natura di quanto non si pensi, perché potenzialmente riguardante tutti i materiali o, meglio, tutte le loro superfici esterne, nel momento in cui hanno qualsiasi tipo di contatto sufficientemente forte. In pratica, nei punti di contatto si creano delle interazioni chimiche tali per cui gli elettroni legati ai propri atomi con un’energia di legame più bassa tendono a staccarsi, per attaccarsi agli atomi dove l’energia di legame è maggiore.

Fig. 1 – L’energia vibrazionale è recuperabile con efficienza con le nuove celle basate sull’effetto triboelettrico sviluppate dall’equipe di ricerca del prof. Z.L.Wang del Georgia Institute of Technology

In funzione dell’energia di legame degli elettroni negli atomi superficiali, quindi, ci possono essere dei materiali che tendono facilmente a perdere elettroni e altri che preferiscono acquisirli. Nel primo caso si dicono negativi e dopo l’effetto triboelettrico si caricano positivamente mentre nel secondo si dicono positivi e poi si caricano negativamente. Si tratta comunque di effetti mediocri e in natura si possono quindi avvertire solo se, oltre a toccarsi, i due materiali vengono ben strofinati in modo da aumentare i punti di contatto e quindi spostare molti più elettroni.

Una volta spostati, gli elettroni tendono ad adeguarsi al nuovo materiale in cui si trovano e perciò ridistribuirsi laddove la loro carica li induce a muoversi. Per esempio, il nylon di un tappeto può trasferire elettroni alla gomma delle scarpe e queste per induzione fanno allontanare un po’ di elettroni dai piedi facendoli spostare sulle mani, così non appena si tocca la maniglia metallica di una porta si sentono le mani scaricarsi attraverso la tipica scossa. In letteratura si trova pubblicata la “serie triboelettrica”, ossia l’elenco dei materiali più propensi a cedere o ad acquisire elettroni e fra i primi si trovano vetro, nylon, PET, lana, pelle e capelli umani, mentre fra i secondi ci sono teflon, PVC, polietilene, poliestere e poliuretano.

Fig. 2 – Il ciclo di generazione della corrente triboelettrica è ingegnerizzato in modo tale da potersi reiterare periodicamente e produrre una potenza alternata stabile

L’effetto triboelettrico avviene quindi per contatto superficiale fra i materiali ed è pertanto differente dall’effetto piezoelettrico dove la generazione di elettroni avviene in seguito a una deformazione o meglio alla compressione o alla dilatazione di un cristallo dielettrico inserito a sandwich fra due elettrodi, proprio come in un condensatore la cui capacità, ossia la carica indotta sugli elettrodi, dipende come è noto anche dalla loro distanza. Variando lo spessore dello strato di cristallo, quindi, cambia la differenza di potenziale e perciò con un’adeguata polarizzazione è possibile ottenere una generazione di corrente piezoelettrica proporzionale alla deformazione. L’effetto, inoltre, è energeticamente reversibile, dato che si può applicare tensione al cristallo per deformarlo e questo principio è soprattutto noto nella fabbricazione dei microfoni e degli altoparlanti ma è utilizzato anche in molte altre applicazioni industriali.

Corrente elettrica dall’energia vibrazionale

Nella sua sperimentazione originale Z.L.Wang scelse il Kapton, materiale poliimide diffusissimo in elettronica per la sua estesa stabilità nell’ampia gamma di temperature fra -270 e +400 °C e perciò utilizzato nella fabbricazione dei circuiti stampati e anche nelle guarnizioni dei sistemi e dei tessuti a uso aerospaziale. Il Kapton, al pari del cloruro di polivinile (PVC), tende ad acquisire elettroni e caricarsi negativamente mentre, al contrario, il polietilene tereftalato (PET) tende a cedere elettroni e caricarsi positivamente. Dopo lunghe sperimentazioni, Z.L.Wang selezionò questi materiali per sovrapporli nelle celle triboelettriche Kapton-PET e PVC-PET e studiarne approfonditamente le proprietà e le caratteristiche, stabilendo quindi che nelle celle di recupero dell’energia le prime sono preferibili per la maggior efficienza, mentre le seconde per il costo più basso.

Fig. 3 – Nel primo prototipo di cella realizzata con Kapton e PET si accendeva un LED mentre nelle attuali celle di 4,5×4,5 cm con PET e PDMS si possono accendere trenta LED semplicemente camminando

La cella elementare concepita in tal modo misura 4,5 x 1,2 cm ed è formata da uno spessore di 125 µm di Kapton e uno di 220 µm di PET entrambi scorrevoli e perciò ‘strofinabili’ e, inoltre, frapposti a due elettrodi costituiti da due lamine malleabili di Au/Pd-Au. Lo strofinio fra il Kapton e il PET viene raccolto da un circuito elettrico che riesce a ricavare una densità di potenza elettrica di circa 10,4 mW/cm3 con una differenza di potenziale ai morsetti di 3,3V e una corrente emessa di circa 0,6 µA. Affinché ciò succeda è ovviamente necessario che il contatto fra le superfici dei due materiali sia mantenuto con una successione periodica di strofinamenti per lo spostamento degli elettroni, seguiti da altrettanti rilassamenti, che servono a ripristinare la condizione naturale dei due materiali.

Di conseguenza, si genera una corrente tempovariante definibile con la formula I = C·dV/dt + V·dC/dt dove il primo termine rappresenta la variazione del potenziale elettrico prodotta dal movimento elettrostatico delle cariche indotte dall’effetto triboelettrico, mentre il secondo è la variazione della capacità causata sia dalla differenza di potenziale triboelettrica sia dal cambiamento della distanza fra i due elettrodi, per effetto dello schiacciamento meccanico dei due spessori e costituisce quindi un parziale effetto piezoelettrico di cui bisogna tenere conto, perché influisce sul rendimento.

Entrambi i fattori contribuiscono alla corrente ma per ottenere un funzionamento stabile i ricercatori hanno dovuto realizzare un processo periodico con semicicli di strofinio e semicicli di ripristino, nei quali le cariche tornano al loro posto per induzione elettrostatica, richiedendo però meno energia rispetto al primo semiperiodo e quindi consentendo alla differenza di energia prodotta di fuoriuscire sotto forma di corrente alternata permanente. In pratica, nel primo prototipo sono riusciti a fare in modo che dopo circa 450 cicli di strofinamento e deformazione della cella ci fosse abbastanza tensione per accendere un LED e mantenerlo acceso.

Celle efficienti e indossabili

Dai primi esperimenti, effettuati due anni fa, nei quali otteneva all’incirca 1W da un intero metro quadrato di celle triboelettriche, il team di Z.L.Wang è riuscito oggi a moltiplicare il rendimento dei Triboelectric Nanogenerators (TENG) abbandonando il Kapton, per preferire vicino al PET uno spessore di 400 µm di polidimetilsilossano (PDMS); in questo modo i ricercatori hanno fabbricato delle celle di 4,5×4,5 cm, capaci di generare ben 313 W/m2 e accendere contemporaneamente trenta LED. Inoltre, i prototipi di queste celle sono stati inseriti in quadratini di tessuto che poi sono stati incollati sulle solette delle scarpe, permettendo a chi le indossava di recuperare energia vibrazionale camminando e ottenendo di picco fino a 220V e 40 µA.

Fig. 4 – Dopo due anni dai primi esperimenti l’equipe di Z.L.Wang è riuscita a ottenere una produzione di energia pari a 313 W/m2 e oggi sperimenta la possibilità di realizzare celle ibride triboelettriche e piezoelettriche

Si tratta senza dubbio di un livello di potenza interessante per essere utilizzato in molti modi e non solo per ricaricare la batteria di un cellulare, ma anche per alimentare dei piccoli sistemi indossabili con sopra perfino un microcontrollore e qualche sensore intelligente. D’altro canto, queste celle triboelettriche possono essere costruite con gli attuali processi già impiegati per la fabbricazione dei MEMS (Micro-Electro-Mechanical System) che offrono costi competitivi sul mercato e, inoltre, permettono di realizzare le celle con un’ampia varietà di forme e dimensioni adatte soprattutto alla cattura dell’energia vibrazionale dispersa, attualmente considerata una delle migliori fonti di energia recuperabile perché diffusissima e gratuita.

Va notato che, siccome quasi tutti i materiali migliori per i TENG sono organici, si possono trovare sovente le celle triboelettriche descritte come “nanogeneratori organici”; attualmente sono in corso di sperimentazione nuovi materiali ottenuti con procedimenti nanotecnologici, che potrebbero ben presto offrire la possibilità di migliorare ulteriormente il rendimento e creare applicazioni ancor più competitive sul mercato. Inoltre, negli stessi laboratori si sta studiando come ingegnerizzare le celle triboelettriche insieme alle celle piezoelettriche sviluppate con successo proprio dal medesimo Nanoscience Research Group del prof. Z.L.Wang. È in questi stessi laboratori, infatti, che i ricercatori hanno scoperto come utilizzare a tal scopo i cristalli di ossido di zinco, ZnO, ottenibili con gli attuali processi MEMS nelle dimensioni di poche decine di nanometri con caratteristiche sia piezoelettriche sia semiconduttive.

Grazie a ciò, formano agli elettrodi un diodo Shottky che rettifica la corrente piezoelettrica generata e la rende più facilmente utilizzabile nelle applicazioni. Con i recuperatori di energia piezoelettrica in ZnO sono state anche fabbricate delle piccole pile che sono state inserite a loro volta nelle suole delle scarpe per permettere a chi le indossava di generare elettricità camminando. Va tenuto conto, tuttavia, che in termini strettamente energetici l’effetto piezoelettrico è più efficiente rispetto all’effetto triboelettrico ma quest’ultimo ha il grande vantaggio di essere implementabile su strisce di tessuti che diventano pertanto indossabili e installabili un po’ dappertutto, con possibilità applicative illimitate.