A STM il Customer Satisfaction Award di Sole24Ore e Arthur Andersen

Dalla rivista:
EONews

 
Pubblicato il 16 febbraio 2002

Stando a un’indagine a cadenza annuale presentata dalla Arthur Andersen nell’ottobre scorso, se l’organizzazione dell’azienda orientata al cliente è stata ampiamente discussa e compresa dai manager, di fatto la sua attuazione è limitata e qualitativamente in declino. Tuttavia ci sono delle eccellenze che testimoniano l’utilità dell’approccio e fra queste presentiamo di seguito l’esperienza di STMicroelectronics, che nel 2001 si è aggiudicata per la seconda volta il Customer Satisfaction Award, nella categoria business to business promosso da Arthur Andersen e Il Sole 24 Ore.
Abbiamo chiesto a STMicroelectronics di spiegare, a partire dalla loro storia, cosa significhi un sistema di gestione aziendale orientato al cliente e come questo si differenzi dalla semplice predisposizione di strutture e servizi dedicati al customer care. L’azienda ha risposto offrendoci un incontro sul tema al quale hanno partecipato Ivano Faccin, South Europe Area Director, Sonia Bottin, Southern Europe Customer Service Manager, Florinda Callegari, Marketing & Communication, Giuseppe Barbuscia, Information Technology Director.
Come si è sviluppata la customer satisfaction in STMicroelectronics?
Callegari. La prima tappa fu il 1994 quando venne lanciata una campagna generale in tutte le nostre sedi per l’applicazione del total quality management. Ci fu un primo impatto molto forte sulle aree produttive dove il concetto di qualità era immediatamente percepibile. In seguito venne avviata una fase definita di continuous improvement. In sostanza il concetto di qualità si estese gradualmente dai processi produttivi ai servizi e fu spinto fino a perseguire la qualità in ogni aspetto dei vari processi aziendali introducendo l’idea di un cliente interno all’azienda che andava soddisfatto.

Un cliente interno?

Callegari. Sì, questo significa che ogni dipendente deve capire che il suo operato ha ricadute sia interne che esterne e quindi il risultato del suo lavoro deve soddisfare anche il collega/cliente che ne usufruisce. In sostanza tutti siamo stati chiamati ad assumere la mentalità dell’imprenditore e quindi ad essere responsabili a 360° del lavoro che svolgiamo.

Si può dire quindi che c’è stata una fase educativa?

Callegari. C’è stata ed è ancora in corso. E’ stato un processo a cascata. L’impulso iniziale è partito dall’amministratore delegato che ha trainato i manager in prima linea, che a loro volta ne hanno trainato altri e così via fino a coinvolgere tutti i dipendenti. Ad ogni livello sono state fatte tante riunioni e poi corsi per apprendere tutti gli strumenti di tipo operativo e tecnico che sarebbero stati usati per analizzare e misurare la soddisfazione del cliente, interno ed esterno, e per individuare e avviare tutti i cambiamenti necessari al miglioramento.

Qual è stata la risposta dei dipendenti?

Callegari. Molto buona. Basti dire che a tutti veniva data la possibilità di segnalare malfunzionamenti interni o esterni e le risposte sono arrivate a decine di migliaia.

Faccin. In sostanza siamo partiti da una cultura di azienda scritta sui libri, e cioè quella customer satisfaction che veniva dal Giappone, per adattarla però alla nostra realtà e poi siamo riusciti a passare dai suggerimenti della teoria ad un’evoluzione di team, per cui ogni team di lavoro si è impegnato per elevare la customer satisfaction.

Davvero il cambiamento non ha trovato resistenze?

Bottin. Certo che ci sono state inizialmente e le più grandi sono venute proprio da noi delle organizzazioni commerciali. Il problema era come misurare la soddisfazione per attività di servizio come la nostra. Nella produzione, ad esempio, è facile misurare quanto risparmio aggiungendo una certa sostanza, ma il nostro lavoro non ci sembrava misurabile. A noi era stato sempre richiesto un risultato immediato, la vendita, mentre la customer satisfaction non da risultati immediati. E poi essendo i primi portavoce dell’azienda verso il cliente non ci sentivamo soggetti a miglioramenti.

E poi come siete arrivati a condividere la nuova filosofia?

Bottin. Beh, gradualmente ci siamo accorti che anche noi potevamo migliorare. Ricordo ad esempio gli internal service agreement. Sono dei veri e propri accordi interni bilaterali tra le varie divisioni, nei quali la divisione si impegna a soddisfare le richieste avanzate dall’altra per dare un servizio migliore al cliente. Questi accordi interni in certi casi hanno innescato tante attività di interscambio che hanno portato a grandi miglioramenti.
Quindi ogni vostro atto è stato analizzato sotto il profilo della customer satisfaction?
Faccin. Sostanzialmente è così. Infatti il passo successivo è stato quello di produrre un’analisi dettagliata del flusso fra settori dell’azienda. Questo ha significato individuare e analizzare i vari elementi, assegnare loro un punteggio, identificare le parti vincenti e quelle carenti per arrivare infine a proporre un processo di miglioramento. Anche la nostra area vendita partecipa a questa analisi che ha cadenza annuale.

Callegari. E poi c’è un esame biennale di tutto il processo di customer satisfaction che viene svolto dall’amministratore delegato con un comitato ad hoc. È un esame che riguarda tutte le organizzazioni interne, che prende il via da una fase di reporting secondo un modello di self assessment, dove vengono misurati i maggiori processi, per arrivare poi ad aree di risultato.

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